Ok questa la so. La so, è facile. Mi ricordo il punto di partenza e il punto di arrivo: una passeggiata.
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L’esame è tra un’ora, ho tutto il tempo. In un’ora mi faccio il giro d’Italia a piedi, io. Figuriamoci se non mi riesco a fare mezza Milano.
Tranquillo. Un gioco da ragazzi. Moscova, la verde, Loreto. Scendi, vai da Giobbe a riprenderti gli appunti che hai dimenticato ieri in auletta, dannazione a te e alla tua proverbiale sbadataggine, la rossa, Precotto, il 7 per quattro fermate e ci sei. Pronto per l’orale. Un fiore.
Mentre cammino la mente non vuole star ferma, ripasso. Ma ripasso nel senso più letterale: continuo a passare dalle stesse parole, dalle stesse formule. Dunque uno innanzitutto prende una distribuzione di probabilità, e la applica a quello che vuole studiare: un passo di un percorso.
Scendo nella metro incurante del flusso di gente che proprio in quel momento ha deciso di uscirne: ora di punta, penso. Le nove e mezza, tipico. Il traffico di tutti quei poveracci che ogni giorno alle dieci timbrano il cartellino.
Come sarebbe a dire che non ci sono più treni per Loreto.
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L’altoparlante ripete quello che un minuto prima ho fatto finta di non capire. Sciopero dei COBAS, metro due bloccata. Rallentamenti sulla uno. La tre invece tutto bene, a parte le madonne che le stanno cadendo in testa proprio adesso. Ma lei, sorniona, non bada alle mie imprecazioni e tranquilla continua a filare Maciachini - San Donato e ritorno, efficiente ed inutile in ciascuna delle sue giallognole fermate.
Ma poi sti COBAS chi li ha mai sentiti. Non è mai successo nulla durante i loro scioperi, mai. Sciopero dei COBAS, ah sì, bene allora andrò coi mezzi. E invece ecco dove si annidavano. Sottoterra.
Prendo la metro nell’altra direzione e benedico il maresciallo Cadorna, che tra una disfatta di Caporetto e una Strafexpedition ha pensato bene di collegare la rossa e la verde in un altro punto oltre a Loreto. Lui sarà pure Cadorna, ma io sto diventando Rommel.
Si definisce random walk un percorso i cui spostamenti da un punto all’altro sono dettati da una definita legge di probabilità. Nel caso banale in cui la probabilità sia 100% in una direzione e 0% in tutte le altre, si ritorna al concetto di traiettoria classica.Con un inizio e una fine. Studiamo invece il caso nonbanale, seppur semplice, di una distribuzione di probabilità piatta, dove tutti i punti hanno la stessa probabilità di essere la destinazione del prossimo passo.
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Ciao Ale sono Edo, Giacomo mi deve ridare degli appunti posso salire? Giacomo non c’è. Ma in che senso, non c’è. E’ ancora a dormire? Come è già uscito.
Ma Giacomo, Giobbe, tuo fratello. Blow-giobbe. Quello che le dieci del mattino è già tanto se si fida che esistono, dato che non è mai riuscito a vederle in vita sua, perlomeno non da sveglio. In università. A studiare.
Ma che succede oggi a Milano?
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Mezz’ora basta e avanza. Hai voglia. Ora che ho capito che i COBAS hanno fatto propri i sotterranei come un piccolo esercito di ratti-talpa, non mi resta che evitarli. Quel bus lì ha come capolinea Lambrate. E andiamo pure a Lambrate, dai.
Nel random walk non è che la velocità di percorrimento di una distanza, da un punto di partenza A ad un punto d’arrivo fissato B, sia molto piccola, o addirittura zero. Nel random walk il concetto di velocità non esiste proprio, poiché è topologicamente svantaggioso - in termini matematici - come metodo per spostarsi da un luogo all’altro.
Venti minuti, che ce ne avrei messi meno se l’avessi fatta strisciando sui gomiti, purché facendolo in linea retta e non andando a scovare ogni singolo anfratto del quartiere. Lambrate. C’è un treno alle 10.23 che va a Greco. Lo dice anche l’altoparlante: il treno suburbano S9 delle dieci e ventitré. In realtà non dice proprio così. Dice ventitrehé?, con un tono mezzo interrogativo che lascia spazio ai ritardi di Trenitalia. E in più con quella doppia e, che sembra Giuni Russo che canta Un’estate al mare.
Dieci minuti di ritardo non si negano a nessuno. Scommetto che neanche se ne accorge. Passo davanti al motorino di Giobbe: c’è. E’ qui. Convergiamo. Dunque a questo mondo c’è giustizia, a volte. Aspetto l’ascensore, è rotto, salgo le quattro rampe di scale per piano fino a trovarmi al quinto piano, per un totale di venti dannatissime rampe, che chissà quali manie di grandezza gli erano venute ai fisici teorici al momento della spartizione degli uffici, “noi si sta all’ultimo, che si è più vicini a Dio”, e invece si è solo più vicini al tetto, che se aveste conosciuto l’Arch. Gregotti ve ne sareste tenuti ben lontani, mentre adesso ogni volta che fa due gocce di pioggia in più del normale vi trovate a dover costruire opere di canalizzazione nell’aula server che neanche i faraoni, nel tentativo di non perdere tutto il lavoro che avete fatto e che, essendo voi teorici, esiste unicamente in quanto memoria silicea protetta solo da un sottile case di plasticaccia e metallo.
Mi dirigo verso il suo studio. Com’è che andava a finire la storia? Ad avere i miei appunti. I miei appunti, mica sono passato a riprendermeli, alla fine. Esisterà pure giustizia a questo mondo, ma qui siamo in Italia e diamo già per scontato che fallisca. E invece.
Giobbe è davanti allo studio del professore, con in mano i miei appunti. “Scommetto che non ti ricordi la fine, cujùn”, e me li sbatte in faccia. Li prendo al volo, apro a caso sulla pagina giusta e leggo. “Taci te che non sei degno di parlare con un fisico” “Sè sè... e poi non ringrazi nemmeno! Che roba....”
Sono davanti alla porta di questo studio da dieci minuti. E coi dieci di prima fanno venti. E’ ora di muoversi. Ma non ci riesco. Sfoglio ancora gli appunti, a caso, un’altra volta. Ultima pagina. Quella che nessuno ripassa mai. E se poi la chiede a me. Ma in basso, vicino all’ultima formula, c’è una cosa scritta a matita in stampatello. ENTRA, IDIOTA!
Grazie, penso. Busso alla porta, avanti, entro.
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