domenica 6 marzo 2011

Clawing the thin ice

Altra gentile concessione dell'Oracolo. Oggi Jeff dovrà aspettare!
Due storie di ricerca scientifica al servizio di Sua Maestà.


Un tavolino, un caffè, magari un muffin (che in Gran Bretagna 'o sanno fa) ed è pronta un'ottima scusa per chiaccherare un po', specialmente se si tratta di prendersi una pausa dai fogli, dallo schermo, dai conti, dai grafici, insomma dall'odi et amo quotidiano. Essendo quindi ben consapevole che non avrebbero potuto resistere a una proposta così allettante, sono riuscito a incontrarmi con la dott.ssa Stefania Maccalli e il dott. ing. Ruggero Poletto, due dottorandi presso la University of Manchester, in Inghilterra, e a porre loro qualche domanda sulla loro esperienza nel variopinto calderone della ricerca scientifica.
Chiariamoci subito: voi non siete veri dottori, giusto?
Facce basite, mezzi sorrisi, un silenzio imbarazzato che grida, letteralmente, “ma che sta addì”. Urge precisazione.
Nelle conversazione più normali, “dottore” è quasi sempre sinonimo di “medico” e so, per esperienza personale e non, che può capitare di avere l'impressione che il proprio titolo di studio non venga considerato come ci si aspetterebbe perché non corrisponde a una professione tradizionalmente “rispettabile”. Avete anche voi qualche esperienza a riguardo?
Stefania: Una volta, parlando con una persona appena conosciuta, ci si diceva cosa si fa nella vita, e io raccontai che ero laureata in fisica. Al che mi fu ribattuto “ah sì, avrei proprio un po' di pancetta da buttar giù, non è che potresti consigliarmi cosa fare in palestra?”. È vero, il nome è simile, ma l'educazione fisica è decisamente un altro ambito della conoscenza...  
Ruggero: In realtà il titolo di ingegnere rientrerebbe anche tra quelli “rispettabili”, ma appena m'hanno dato in mano la laurea mi hanno detto: “tu sei dottore in ingegneria ma non sei ancora ingegnere perché ti manca l'esame di stato”, per cui mi sento sempre come qualcuno a cui manca qualcosa per essere qualcos'altro.
Raccontatemi un po' della vostra formazione.
R.: Ho fatto il liceo scientifico in una piccola scuola di paese dove ci conosciamo tutti, poi sono andato a Padova a fare la laurea triennale e specialistica in ingegneria aerospaziale, dopodiché ho provato a trovare un'occupazione in Italia, non ho trovato niente che mi piacesse in maniera sostanziale, e soprattutto che mi permettesse di mettere in pratica quel che avevo imparato, per non parlare dell'aspetto economico, il più delle volte in uno stato desolante. Allora ho preso armi e bagagli, e ho deciso di approfondire i miei studi con un dottorato, e ho trovato il più adatto a me qui in Inghilterra. 
S.: Alle elementari ho avuto la maestra unica, una seconda mamma che è stata capace di insegnarmi a ragionare, a imparare. Poi il periodo buio delle medie, il liceo scientifico con indirizzo informatico, che però non m'ha dato niente di diverso da un normale liceo; Università Cattolica di Brescia per tre anni a studiare fisica, spesso in corsi con più professori che studenti, quindi seguiti molto da vicino, fantastico. Tentativo di laurea specialistica fallito per varie incompatibilità di piano  di studi, dopodiché sono venuta a sapere da amici di amici di amici che qua si poteva fare il dottorato anche solo con la laurea triennale e ho fatto subito le valigie.
Albert Einstein sosteneva che ogni scienziato dovrebbe essere in grado di spiegare di cosa si occupa alla propria nonna. Di cosa vi occupate, cari nipotini?
R.: Per risolvere problemi come ad esempio progettare un'ala o studiare il rumore prodotto da una turbina, spesso si usano simulazioni al computer. Per farle ci sono principalmente due metodi: uno veloce ma molto approssimativo e uno lento ma più accurato. Io sto cercando di creare un sistema ibrido che riesca a mettere insieme i vantaggi degli altri due.
S.: Mi occupo di ottica, cioè di ciò che riguarda la luce (e non di occhiali!). Recentemente sono state scoperte nuove proprietà dei fotoni, che sono le particelle di cui è fatta la luce, ed è possibile sfruttarle per capire di più delle stelle da cui la luce arriva fin qua. Io sto pensando agli strumenti che ci permetteranno di ottenere queste informazioni.
Scegliere di fare ricerca scientifica non vuol dire mai intraprendere una strada comoda, in nessun periodo storico. Come mai avete preso questa direzione?
S.: La botta in testa vocazionale risale al periodo delle elementari, appena ho potuto cominciare a leggere i libri di Asimov di mio papà. Dalla fantascienza è nato poi l'amore per l'astrofisica, che dura tutt'ora. 
R.: Ci sono tante ragioni, ma credo che la più importante sia quella che dovrebbe esser valida per ogni scelta, e cioè la passione per quello che si sta facendo. Non sono mai stato attratto dall'idea dell'ingegnere che gestisce l'azienda, che fa il manager; mi interessano molto di più le sfide che si affrontano nella progettazione e nella ricerca.
Il caffè che non è ancora stato bevuto si sta raffreddando, il sole ormai basso fa capolino tra gli alberi immergendo il locale in un tepore che sa già di ritorno a casa per cena. È il momento ideale per una marzullata.
Scienziati si nasce o si diventa?
S.: Direi che si nasce, perlomeno in certi casi eclatanti. Ma se incontri le persone giuste, puoi anche imparare ad apprezzare l'ambiente e ad appassionartene col tempo. Ci sono persone che si innamorano con un colpo di fulmine, e altre che ci mettono di più a rendersene conto.
R.: Probabilmente nasci con la passione, poi sta a te far diventare questa passione una scelta di vita. È come il calcio, nasci con la dote giusta, ma se non ti alleni è inutile, non diventerai mai un calciatore.
Cosa vuol dire per te fare scienza, qui e ora?
S.: Per me innanzitutto è vivere un sogno che non speravo più di riuscire a realizzare. Poi è qualcosa che è soltanto per la conoscenza, la soddisfazione di aggiungerci il proprio pezzettino, anche se non dovesse comportare gratificazioni né sociali né economiche. Il bello è anche potersi confrontare con tante altre persone da tutto il mondo che condividono i tuoi stessi metodi e le tue stesse motivazioni.
R.: A me pare che la storia sia stata fatta e sia fatta tutt'ora da dei piccoli esserini come te e me, che cercano di risolvere i loro problemi, piccoli o grandi che siano. C'era il problema del trasporto, e qualcuno s'è detto “bè, quasi quasi mi invento la ruota”, e questo è fare scienza: cercare di risolvere i nostri piccoli problemi e migliorarci un po' la vita.
Uno dei padri della fisica moderna, Niels Bohr, asseriva che fare previsioni è molto difficile, specialmente del futuro. Ciononostante, vi chiedo di provare a dare un'occhiata nei prossimi anni: quali sono le vostre speranze e che cosa vi aspettate?
R.: Innanzitutto spero di finire il dottorato in tempo, e dopo mi piacerebbe tornare in Italia ad applicare quello che ho imparato. Il resto lo scopriremo solo vivendo, d'altronde se m'avessi fatto la stessa domanda qualche anno fa, mai t'avrei detto che mi sarei ritrovato a Manchester, men che meno a farmi fare un'intervista!
S.: Come primo obbiettivo, finire il dottorato, mettere la mia bandierina sulla cima della montagna, magari nel frattempo avendo realizzato qualcosa di utile anche per altra ricerca. Se poi potessi continuare a far ricerca, non importa dove, sarebbe il massimo. E anche farsi una famiglia...
Chiudiamo in bellezza: un consiglio per chi sta muovendo i primi passi verso una vita dedicata alla scienza.
R.: Lasciate perdere, ho già abbastanza concorrenza!
S.: Fatevi curare!
Che dite, questi scienziati ci stanno già diventando troppo british? Tanti saluti ai continentali!







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