domenica 10 aprile 2011

Jeff Santini - #10 - Una tana buia e stretta

Jeff non si aspettava una risposta del genere. A dirla tutta, non si aspettava proprio nessuna risposta.
Il suo articolo era uscito quella mattina e milioni di copie del Times lo avevano sparso in giro, così come la richiesta velata che conteneva. Jeff considerava il Lupo una persona metodica, per quanto fosse crudele e spietato. Il ricordo dell'incontro con il Lupo, nel buio di San Patrick, era troppo vivido per fare sì che si lasciasse fuorviare dalle voci che giravano sul conto del killer. Lui sapeva, lui aveva visto da vicini. Quell'assassino era un tipo informato, pratico, aggressivo e metodico. Non si sarebbe fatto scappare quella uscita del Times e sarebbe incappato nell'articolo.
Poi, sul fatto che rispondesse o meno all'appello, Jeff non aveva alcuna previsione.
Di certo non si aspettava una risposta così eclatante.

Jeff stava tornando a casa.
Era sera ed era appena stato dal Capitano Loyd a fare due chiacchere e a rubare gli ultimi aggiornamenti.
Loyd gli aveva parlato di una scaramuccia con un suo superiore e si era sfogato con il giornalista tutto il pomeriggio. Jeff lo aveva riaccompagnato in casa in taxi ed era stanco morto.

Giunto di fronte a casa sua, Jeff scese dall'auto, pagò il taxista e fece per entrare in casa ma si bloccò.
La mano a mezz'aria stava per tuffarsi in tasca a recuperare le chiavi ma si fermò a meta strada, interdetta dalla visione di un'ombra scura e imponente sulla porta d'ingresso.
Poi l'ombra si mosse e si fece avanti.
Jeff rimase immobile, disarmato.
Aspettò che l'ombra fu sopra di lui e poi reagì istintivamente allungando le mani per afferrarla.
L'ombra allungò due arti e lo afferrò a sua volta.
Entrambi rotolarono in terra e Jeff si sentì premere forte sulla faccia un fazzoletto umido, nauseabondo.
Ogni respiro che faceva lo indeboliva sempre di più e si sentì mancare le forze.
L'ultima cosa cosa che sentì, fu la voce calda e tranquilla dell'ombra che lo ringraziava del suo invito.

Prima ancora di rendersi conto di dove fosse, Jeff dovette fare a pugni con un mal di testa terribile.
Era sdraiato sulla schiena e prima ancora di riuscire a chiedersi cosa era successo, decise di restare per terra a riprendersi con calma.
Solo dopo dieci minuti di respiri profondi, Jeff trovò la forza di aprire gli occhi.

Era palesemente una cella, molto probabilmente interrata. Non c'era luce naturale, solo una lampada a petrolio accesa da un bel pezzo, a giudicare dalle strisce di fuliggine che annerivano il muro. Jeff si sedette sulla piccola brandina, unico arredo della stanza, e iniziò a valutare la situazione.
La porta in ferro aveva uno spioncino di due spanne, chiuso.
Era una prigione, senza ombra di dubbio.

Il pacco di cartone aveva atteso sulla scrivania di Ben per tutta la mattinata. Il caporedattore trovò il tempo di aprirlo solo nel pomeriggio, dopo un paio di noiose riunioni di redazione. C'era poca gente al Times e si respirava un'aria pesante, poco favorevole all'umore di chi lavora.
Benjamin mise da parte le scartoffie e aprì il pacchetto. Era indirizzato proprio a lui, ma mancava il mittente. Buttò via il cartone e scoprì una piccola scatola di legno chiaro, con un coperchio incastrato sopra.
Lo aprì. Ben riconobbe subito la pipa. L'aveva vista mille volte accendersi e spegnersi tra le labbra del suo amico e diffondere il suo aroma dolciastro nel suo ufficio. Era stata fumata di recente, non più di due giorni prima. C'erano tracce di tabacco semi carbonizzato nel camino e i segni del curapipe nella fuliggine. Quella pipa era così familiare che Ben non vide subito il proiettile. Se ne stava sul fondo della scatola, assopito e minaccioso. Una piccola scheggia di morte che bramava di essere vomitata da una 45.
Un proiettile pesante, levigato. Un solo messaggio.
Per un quarto d'ora Ben rimase nel suo ufficio, a soppesare quei due oggetti così lontani tra loro, forzati a coniare insieme un messaggio di morte.


La porta della cella si aprì.
Jeff cercò di distinguere la figura in controluce che ostruiva l'ingresso.
Poi la figura parlò.

"Come vedi so essere puntuale."
"Chi siete?"
"Nessun siete. Sono solo."
"Il tuo capo ha frainteso tutto. Ho chi può garantire per me."
"Ne sono sicuro."
"Allora fammici parlare."
"C'è tempo. Prima devi scrivere, giornalista."
"Ho già scritto."
"Non abbastanza."
"Cos'altro volte, maledizione. Non posso inventare tutto."
"Non ho mai detto di inventare niente."

La figura lanciò nella cella un pacco di carte. Appunti, fotografie, vecchi articoli. Un archivio completo e aggiornato sui delitti del Lupo.

"Leggili. Ci sono pezzi dei tuoi colleghi e materiale inedito. E' tuo."
"Cosa devo fare."
"Mi sembrava di avertelo già detto, no? Continua a scrivere di me!"


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